per una poesia critica / jean-marie gleize. 2013

«Io sono un suscitatore»
Francis Ponge

Come intendere la “lezione” di Francis Ponge? In effetti, è evidente che la sua opera non rappresenta una semplice proposta poetica ma anche, simultaneamente, un intervento decisivo nel campo della scrittura, della teoria delle pratiche di scrittura, una presa di posizione strategica, in rapporto alla quale non è ormai più possibile evitare di indicare una propria collocazione. È in questo senso che si può parlare di “lezione”. Visto che di Partito preso delle cose si tratta (è questo il titolo dell’opera che lo farà conoscere nel 1942), questa “lezione” la si può, per esempio, intendere come una delle possibili risposte all’aspirazione di Rimbaud verso una «poesia oggettiva». E come uno dei possibili prolungamenti del gesto con cui quest’ultimo cerca nei fatti di sostituire una certa idea di prosa alle diverse modalità di sperimentazione metrica e prosodica. O anche come uno dei modi possibili per riformulare la critica che lo stesso Rimbaud aveva condotto non soltanto nei confronti delle modalità del linguaggio poetico, ma della “poesia” in quanto tale, della “poesia” nella sua specificità e autonomia di genere. Quella di Ponge sarebbe dunque, sotto parecchi punti di vista, un’operaesemplare, un’opera che si fa progressivamente sempre più radicale, un’opera che si colloca su una linea critica che dalla poesia prosastica in versi e in prosa arriva fino alla pratica di una scrittura oggettiva, addirittura oggettivista, al di là del principio che regola la distinzione formale tra verso e prosa; fino all’esercizio, dunque, di una scrittura non soltanto post-poetica ma post-generica. A questo modello critico, che implica da parte del lettore una sospensione di tutti i presupposti, addirittura di tutti i pregiudizi sulla cosa «poesia», appartiene il volume oggi offerto al lettore italiano.

Accade così che nel 1983 esce, per le edizioni Gallimard, questo librettino verde (è la copertina che è verde, come l’erba dei prati): Nioque de l’avant-printemps. È uno di quei “librettini” che, nella fase conclusiva dell’opera di questo autore, si ricollegano a quanto di discretamente “sovversivo” poteva esserci in un altro esile volumetto pubblicato proprio a inizio carriera: i Douze petits écrits. Un testo breve, ma molto convincente, assai libero e stimolante. Del resto, è stato proprio per questa ragione che nel 1990, in un momento in cui l’ambiente poetico e il contesto francese non erano (più) tantissimo orientati alla trasgressione dei codici ecc., che con il nome di Nioques è stata chiamata una rivista che intendeva perpetuare la vena critica pongiana dei vari quaderni, tentativi e “fabbriche” e di tutti gli altri appunti pubblicati: per rispondere in maniera offensiva a quel contesto deprimente, per mettere l’accento sulla questione della perdita di identità del genere poesia, sulla questione dello spostamento dell’oggetto-poesia al rango di modalità espressiva in mezzo a tante altre, in posizione relativa, allo stesso titolo (come, per esempio, succede in questo libro) del “proemio”, oppure della “nota”, oppure della “dichiarazione”, non necessariamente portati a termine (nel libro Nioque c’è una pagina e quattro righe intitolate «Inizio della poesia del periodo che annuncia la primavera»).

È evidente che il termine «nioque» va decisamente a sostituire il termine «poesia». Esattamente come di fronte a quell’inibizione che, nella Fabrique du pré (libro pubblicato nel 1971), Francis Ponge sostiene di provare nel «portare a termine» il proprio «saggio sul prato». Al termine «saggio», aggiunge una nota: «Termine scelto con cognizione di causa, contro quello di poesia». Si tratta, se vogliamo, di una mutazione terminologica che ha lo scopo di strappare le scritture di ricerca al quadro generico istituito. Quel librettino verde appartiene all’esercizio e all’esperienza dell’«uscire» da quel campo, da quelle che Ponge, sempre nellaFabrique du pré, chiama «le imposture della poesia». Dato che non esiste alcuna definizione formale della cosa «nioque», neppure in forma minimale, la parola che funge da titolo, la si potrebbe a buon diritto scrivere persino al plurale. Si tratta di un vocabolo vuoto, assente dal dizionario, un vocabolo che funziona soltanto a partire dall’esempio di Ponge, a partire da quanto ci suggerisce un libro in cui il o la «nioque» proposto (proposta) si presenta come un dispositivo eterogeneo a entrate multiple. Per coloro che vorranno qui intendere la “lezione” di Ponge, ci sono, ci saranno una pluralità di possibili “nioque”, cantieri aperti di esperienze polimorfe.

A proposito di Nioque de l’avant-printemps ovvero Cognizione del periodo che annuncia la primavera, ho appena parlato di un dispositivo eterogeneo. È una delle caratteristiche più sorprendenti di questo libro, il quale comincia proponendo un testo che deve essere letto tre volte. Si tratta innanzitutto di un diario scritto nell’aprile del 1950, da un Ponge quindi non più comunista ma che, in rapporto a quell’impegno, continua a prendere posizione (continua a posizionare quell’artista che, nel libro, chiama anche ricercatore, lavoratore, operaio). Ma si tratta anche di un testo che ha conosciuto due prepubblicazioni su rivista, una nel 1967 suL’Ephémère, rivista di ultra-poesia, e l’altra nel 1968 su Tel Quel, rivista di non-poesia. Infine si tratta di un libro pubblicato da Gallimard nel 1983, all’inizio di un decennio del tutto diverso, in un momento in cui, peraltro (intorno alla NRF), la poesia “poetica” tornava in superficie in maniera abbastanza aggressiva per tentare appunto di cancellare i progressi critici “degenerizzanti” degli anni Sessanta e Settanta. Quello che è interessante, è che il Ponge ormai molto apertamente gollista, il Ponge che a metà degli Settanta ha rotto conTel Quel, tenga a precisare nella nota Al lettore che le prepubblicazioni hanno «curiosamente […] preceduto di pochissimo gli “eventi” del 1967 e del 1968 a Berkeley, Berlino e Parigi, eventi che alcuni considerano come primavere». Queste prose verrebbero quindi dopo la rivoluzione, o dopo aver abbandonato l’ideologia che sottintende l’illusione rivoluzionaria (gli anni Cinquanta o gli anni Ottanta), ma sarebbero anche, allo stesso tempo, delle prose di prima della rivoluzione, delle prose che annunciano, o che sono in fase con un movimento di emancipazione in corso (la fine degli anni Sessanta). In ogni caso, delle prose “poetiche”, o parapoetiche, che si legano esplicitamente agli avvenimenti politici e alla questione del posto dell’artista nella storia, e che si accollano e si assumono la tensione tra un tempo storico e un tempo ciclico, un tempo cosmico, un tempo naturale.

Constatiamo oltretutto che Ponge tiene insieme parecchi fili, giustapponendoli oppure intrecciandoli, tramandoli senza che sia veramente possibile sapere se stia accordando maggiore importanza alla comprensione di un momento specifico (sarebbe questa, propriamente, la «nioque», la “conoscenza”, la “cognizione” del periodo che annuncia la primavera) oppure all’occasione di un tale tentativo di captazione descrittivo-esplicativa, all’elucidazione e alla formulazione delle sue più importanti «ragioni per scrivere» e dei princìpi che lo guidano. Il testo è allo stesso tempo un diario di fatti, crono-logico (all’indicativo presente, che dice il presente al presente, che restituisce la presenza sensibile al presente), un diario meteorologico, ma anche un diario logico e metalogico, proematico, accumulante notazioni, stasi meditative, prospettive o retrospettive, di ordine poetico (perché sostituisco il documento al monumento), estetico (perché un’estetica dell’andare a tentoni, del ripetere), morale (perché raccomandare un «nuovo umanesimo»), politico (perché sono stato comunista e ora non lo sono più) ecc.

Come ogni lettore attento di questo testo, non vorrei trascurare nessuno di questi fili che compongono la trama: la retorica e l’erotica degli alberi di pero, la definizione nuova dell’artista, l’espressione necessaria della «natura muta», l’opposizione tra tempo seriale e tempo storico… Ma quello che, in relazione a questa “lezione” pongiana, mi importa ancora di più, è precisamente il dispositivo con cui vengono montati gli elementi eterogenei messi tutti quanti su uno stesso piano, la preoccupazione globale per la composizione (in particolare, l’effetto di accerchiamento: la ripresa alla fine delle sequenze iniziali) visibilmente in concorrenza o in contraddizione con la preoccupazione di lasciare avvicendarsi le sequenze in maniera, potremmo dire, paratattica, magistralmente discontinua e addirittura senza sfumature. E poi il passaggio dalla scrittura monumentale (“poematica”) alla decisione in favore del documentale (una scrittura datata e localizzata), a una proematica generalizzata, a una scrittura di annotazioni, a una scrittura teorica corsiva, “imperfetta”, ripresa e rammendata. In una parola, questo libro e questa categoria di «nioque» costituiscono una specie di programma aperto per quanti si pongono il compito di “uscire” in maniera permanente e di esplorare un dopo-la-poesia che utilizzi tutti i mezzi della “prosa in prosa (in prose)”, oltre ogni pretesa estetica e puntando al contrario alcuni effetti di conoscenza del mondo, del «mistero ambiente», come diceva Ponge, o più immediatamente alcuni contesti “schermali” (pochissimo misteriosi ma molto asfissianti) che costituiscono una parte della nostra attuale “realtà”.

Sarebbe, questo, come indicavo all’inizio, uno dei modi per “tener conto” dell’intervento di Francis Ponge nella storia della poesia francese, uno dei modi per dire che non è affatto pensabile fare come se non ci fosse mai passato. Personalmente, considero come un significativo avvertimento la collera che Francis Ponge manifesta nelle «pagine bis» del Carnet du bois de pins nei confronti dell’amico Gabriel Audisio, il quale non ha capito che cosa ci sia sotto quel diario della scrittura di un testo poetico che si sarebbe potuto intitolare «La pineta» (come in Nioque un testo poetico si sarebbe potuto intitolare «Il periodo che annuncia la primavera») e che alla fine non è mai stato scritto. A Ponge, Gabriel Audisio dice di vederci un tentativo analogo a quello di Poe quando si mette a spiegare come ha scritto Il corvo; gli dice che il suo tentativo può fornire «luci sorprendenti sulle vie dell’immaginazione creatrice» e gli suggerisce un volume collettivo dal titolo «Naissance d’un poème». Ponge replica che Audisio non ha «(evidentemente) [capito] che, in questa pineta, si tratta meno della nascita di un testo poetico che di un tentativo (ben lungi dall’essere riuscito) di assassinare una poesia attraverso il suo oggetto». E parla di «controsenso». Avvertimento significativo, visto che il controsenso, il malinteso, è estremamente facile: se Ponge dice Audisio non ha capito («evidentemente»), è evidentemente perché Audisio è un poeta e mi prende con tutta naturalezza per poeta, crede che io scriva delle poesie ecc. In realtà, non è vero niente.

Il piccolo saggio di definizione etimologica del termine «forgiato partendo dalla radice greca di “conoscenza”» e posto all’entrata di Nioque de l’avant-printemps ovvero Cognizione del periodo che annuncia la primavera, introducendo una specie di angolino nel paesaggio generico, sta lì a confermare questa dichiarazione di «uscita» al di fuori del «maneggio».

E soprattutto, non chiudiamo i laboratori degli operai-ricercatori che siamo, che vogliamo essere!

[ Introduzione a Francis Ponge,
Nioque de l’avant-printemps, ovvero Cognizione del periodo che annuncia la primavera,
Traduzione e cura di Michele Zaffarano, Benway Series, Tielleci, Colorno 2013 ]