Un altro momento del dialogo con Stefano

caro Stefano,
quello che scrivi (e che riporti, e che mi è caro) nel testo che leggo ora, vale in pieno, e felicemente, per la fotografia, in generale; e pure e parallelamente vale, con certezza, per quella scrittura, per quella modalità e area/aria di testualità (ancora inscritta nel paradigma attivo fino a fine Novecento) che con grande approssimazione ho voluto definire “assertiva”. Puntando io, con l’agg. “assertivo”, ad un riferimento (temo tutt’ora da parte mia troppo vago) al contratto o accordo reciproco tra autore e lettore circa una condivisa “percezione della retorica in campo” (e delle richieste o echi di richieste e attese che testo e lettore si scambiano: entrambi soggetti, entrambi attori, non passivi).

Aggiungo che – “addirittura” – ciò (tutto ciò), tutto quanto detto, per voce di Heidegger come degli autori che implicitamente sappiamo entrambi di star suggerendo, vale anche per quella scrittura che – dopo quello che continuo a pensare un tramonto di paradigma – entra di fatto e si installa proficuamente nell’area sdefinita e cangiante di ciò che ancora noi stiamo facendo [e credo continueremo ancora a lungo a fare] funzionare come “oggetto estetico”.

[ Estetico, dico, in accezione garroniana (che poi è forse propriamente kantiana; se mai Kant avesse usato la parola!). Ossia nell’accezione che svincola l’estetica dal “bello” e la coopta nel “sensato”, semmai: dunque negando che l’estetica sia un “ambito”, un settore (magari con sue regole); e anzi ampliando l’estetico fino all’intero spettro dell’esperire. ]

Non è in nessun modo – io credo – possibile negare che anche oggetti postparadigmatici (après le déluge du XXe siècle) possano essere percepiti come oggetti pre-.

Di qui la difficoltà della percezione iuxta propria principia di alcune scritture nuove. (Di qui, per converso, la – talvolta fastidiosamente ‘militante’ – esondazione di alcune di quelle scritture in una freddezza che ne esalta “una” non letterarietà). (Ma abbandono ennesime parentesi).

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Tornando alla Bosse. La sintesi ha nuociuto forse al mio pezzo; o forse gli ha nuociuto la mia intenzione di pensarlo naturalmente inscritto/inscrivibile in quanto postavo su Nazione indiana. Devo spiegare meglio.

Non il fatto che la Bosse stagli un’assenza e spostamento, io osservo, metto a fuoco (né che le sue foto sollecitino lo slittamento e funzionamento – per altro naturale – del nostro esperire per différance). Una malinconia o una lirica (paradigma) si installerebbero (e magari ciò accade) in una sede simile. Sto tentando semmai di mettere a fuoco il fatto che la Bosse mi chiede di non dare per scontato che quell’assenza e spostamento si dia per me proprio e precisamente secondo le (=preorientato dalle) regole e gli “echi noti” della malinconia e della lirica. Per far ciò, lei ha voluto o dovuto porre nel luogo del non detto un “punctum” (per altro, assente: ma inevitabilmente assente) non casuale: non erotico ma proprio pornografico. Qualcosa che cioè fosse frontalmente nemico di un abbandono precodificato a una retorica lirica (pudica). (E: ok: esiste anche lirica impudica; è chiaro che non è alla connotazione di ciò che è assente che mi attengo; ma allo smantellamento delle convinzioni pregresse che una fotografia come quella della Bosse mi sembra non solo suggerire ma proprio porre, istituire – in un’ottica di paradigma abbandonato, lasciato alle spalle).

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Le tue annotazioni sull’accadere o emergere del senso (=nostra immissione [come atto ermeneutico] di senso) “anche rispetto a fenomeni non estetici” le condivido ma sostituendo a “non estetici” qualsiasi altro aggettivo limitante (“non belli”? “non d’arte”? per me vanno assolutamente bene). Essendo, per me, ancora, con Garroni, “estetico” il campo (che non è un campo) dell’esperibile, intero — in rapporto all’esperire il senso-non-senso (in generale).

Su questa operazione di immissione di senso, o slittamento/accompagnamento di tutta la nostra sensibilità lungo gli assi e binari attraverso i quali la differenza si esprime e ci esprime, mi trovo totalmente e direi perfino aprioristicamente d’accordo. Stai descrivendo quella sorta di apprensione del sensato che ci fa, come precondizione del nostro essere nel/il mondo, esistere (almeno stando alla variante di anthropos che da qualche secolo siamo diventati). Che “dunque non è il cambio di paradigma che rende tutto ciò possibile, ma la forza che il linguaggio intrinsecamente possiede, nella misura in cui si svincola dalla reificazione generale, dai luoghi comuni” è per me assolutamente condivisibile.

Quello che ho tentato di fare, tuttavia, sia con Cambio di paradigma che attraverso altre pagine negli anni pubblicate su Slowforward e altrove, e con l’imprecisione e l’imperfezione che riconosco (e che forse sono inevitabili, in primis per limiti miei; ma forse anche per l’impalpabilità di alcuni dati testuali), è stata un’operazione diversa. Ho voluto – intendo – spostare l’osservazione: staccandola dalla presa d’atto del nostro assenso all’opera o oggetto in campo, e dirigendola invece sul riverbero che su questa nostra presa d’atto veniva dal sottrarsi dell’oggetto medesimo ai nostri assensi precodificati, orientati (e non casualmente orientati).

Non sto quindi “più” parlando (anche se spesso e volentieri parlerò) di espressionismo contro lirica, o di spersonalizzazione contro soggettività, o della Bosse contro Cartier-Bresson (=Van Gogh, Trakl), eccetera. Tanto gli espressionisti quanto i lirici quanto i manovratori di pronomi terzi (me incluso) – quando “affermano” preorientando una tavola anche complessa di effetti dell’affermazione sul lettore – sono nel paradigma. Tutti gli altri, i dispersi in un territorio che mi permetto di indicare come esplorabile (senza averne già disegnato una mappa, o avendone solo abbozzi) invece no.

Che questi ultimi siano “dopo il paradigma” lo ipotizzo e al momento mi sembra proprio di poterlo sostenere. Che siano in una diversa declinazione del medesimo ambito o paradigma è cosa di cui invece dubito. (In entrambi i casi non ho certezze da vendere, ma ipotesi che vado sondando e che, alla lettura di alcuni autori spesso da me nominati, mi paiono avvalorate). (Ma: insisto: avvalorate nella e dalla lettura dei medesimi).

Che, infine, con o senza paradigma, si finisca per proiettare (e veder funzionare) sul “nuovo” le modalità di percezione del “non nuovo”, mi sembra non solo umano ma magari anche foriero di ulteriore (e ulteriormente differente) novità.