Cotton, Tarkos : rapido appunto (ancora dialogando con Stefano)


Nei giorni passati avevo ripreso dallo scaffale, sfogliandolo e rileggendolo per frammenti, The photograph as contemporary art, di Charlotte Cotton, uscito per Thames & Hudson circa sei anni fa. È certo un libro che può esser considerato di riferimento, un testo utile – pur se confesso di aver sempre desiderato vederlo più ricco di immagini. In ogni caso offre una lodevole ricchezza, onestà critica, chiarezza espositiva. Ieri sbirciavo casualmente la vetrina di un punto Einaudi ed ecco che ho la bella sorpresa: è stato tradotto (e, forse, accresciuto, stando alla scheda online che ora scorro). Una lieta scoperta, dunque: mi ha fatto gioire ma subito riflettere. Spero utilmente. E mi spiego. Un esempio avvierà il discorso:

A pag. 70 dell’edizione T&H (ri)trovo le annotazioni a proposito delle fotografie dell’artista finlandese Katharina Bosse, dedicate ad ambienti e spazi vuoti: stanze – ci spiegano testo e didascalie  – generalmente affittate per fare sesso e/o girare film porno. Somigliano e forse anzi sono “stage sets before or after a performance”.

La loro riconnotazione, sovrascrittura, da parte del nostro sguardo, avviene dunque nella e grazie alla coscienza del fatto che sono luoghi in cui l’essenziale — crudo/crudele o meno — è temporalmente dislocato: c’è già stato o deve ancora accadere. Se in generale la fotografia è la traccia di un “è così”, particolari fotografie come queste (e molte altre foto di ambienti vuoti, certo: ma in questo caso il vuoto è caricato di un non detto erotico) addizionano un “sarà altro” o un “è stato differente”, che echeggia in qualche modo nell’osservatore. O che (meglio) sarà l’osservatore a far echeggiare nell’immagine.

Non si tratta di riconoscere — trovare familiare — collocare in una enciclopedia di luoghi e dati — una banalità d’ambientazione, mobilio sciatto, luce ambigua, un momento di attesa, ma — anche — di spingere tanto la banalità quanto l’aria atemporale nell’inconsistenza del “set” iperconnotato. Dunque nell’imprimere  attivamente con lo sguardo una sorta di spostamento — di variata percezione — di quei colori o identità e banalità, sciatteria, eccetera.

A marzo di quest’anno su gammm avevamo pubblicato (e personalmente non ricordavo, in quel momento, ossia a marzo, la Bosse) questo ebook: http://gammm.org/index.php/2010/03/23/nuovo-e-book-su-gammm-porn-without-porn, derivato da un blog che appunto è citato e linkato.

È chiaramente inutile ogni spiegazione del perché di questo accostamento.

Ma, al di là della vicinanza tra la Bosse e il blogger a cui noi scriteriati di gammm abbiamo proposto di fare un ebook, che pure è una vicinanza oggettiva (e porterebbe a riflessioni ulteriori su come e dove l’arte contemporanea e la rete si virusano a vicenda in quanto a monte ci sono contesti ancora più ampi che li includono), qual è la ragione di citare tutto ciò come addendum – parziale e rilavorabile, aggiungo – nel dialogo tra Stefano Guglielmin e il sottoscritto?

Varie ragioni:

(1) Sia pure sei anni dopo l’uscita, un libro bello come quello della Cotton viene tradotto in Italia. Questo mi sembra significativo di un allineamento tra contesti diversi che arte e fotografia (e fotografia come arte) contemporanea vivono da anni. Artisti italiani sanno (e il pubblico dell’arte italiano sa) cosa fanno gli artisti non italiani. L’editoria segue questa attenzione; e, certo, la determina, la pilota, forse, anche. (Senza complottismi. E: lo so: l’arte contemporanea sposta tali e tanti capitali, da agevolare assai tutto il meccanismo. Ma proviamo a vedere l’idea, l’impatto complessivo, che il detto “allineamento” può indurre in chi constata un disallineamento delle arti della scrittura:)

(2) Ci sono autori non italiani che non si vedono tradotti praticamente mai (o non si vedranno più) nel nostro paese. E che nei loro paesi d’origine hanno un (per niente scarso) pubblico.

(3) Qual è il “cambio di paradigma” che tali autori hanno determinato o registrano, o di cui possono essere segni, e che sarebbe bello almeno “intuire” qui da noi? Smetto di descriverlo. Si descrive da sé – alla lettura:

(4) Si prenda un libro di Noël (p.es. Estratti del corpo). Si prenda un libro di Tarkos, uno qualsiasi. La differenza è in buona parte (anche se non tutta) lì. Tra asserire contando su un piano retorico comune di condivisione delle modalità di ricezione dell’asserzione; e (sembrar?) asserire non contando ma sviluppando-svolgendo nel percorso stesso un piano di segni i cui parametri non siamo in grado di definire se non – appunto – svolgendolo (almeno per ora).

(5) È – anche – la differenza tra uno sguardo del lettore che riceve un testo (scritto secondo “enunciati che si riferiscono a pensieri già maturi in chi parla, imminenti in chi ascolta”, per citare Merleau-Ponty) e lo sguardo  del lettore che immette del tutto naturalmente e necessariamente una quantità di proprio lavoro ermeneutico dentro il testo (il quale di suo gli lancia una richiesta in tal senso).


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