Nuove note su “Prosa in prosa” / in forma di lettera a Stefano Guglielmin

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Caro Stefano, questa lettera mia in forma di risposta o risposta in forma di lettera può avviare anzi proseguire il dialogo sulla tua recensione a Prosa in prosa, con la premessa che quanto qui scrivo non toccherà tutti i punti che suggerisci nella successiva annotazione che hai dedicato alla mia replica e di nuovo al libro (annotazione di cui ti ringrazio).

Un tema che mi sembra cruciale riguarda una affermazione, che giustamente tu critichi, che vorrebbe o vuole che l’opera dei padri vada conosciuta per “giustificare” i figli. (Anche se direi non padri ma fratelli, forse. Ma, più in generale, ecco:)

Non era forse questo il senso dell’exortatio a cui mi ero spinto nel replicare alla tua recensione. Certo l’exortatio non voleva/vuole pretendere – come forse sovrainterpretando scrivi – “dal lettore di conoscere l’opera dei padri per giustificare i figli”. Semmai rispondeva allo speculare suggerimento rintracciabile nella tua recensione, dove solleciti “una maggiore chiarezza critica verso la tradizione italiana (dai Vociani a Campana, da Pavese a Savinio, da Zanzotto a Rosselli, da Villa a Spatola, da Pizzuto a Manganelli, per non dire dei Novissimi, dei Gruppi ’63 e ’70, e dei poeti di ‘Anterem’), così da rintracciare una linea autorevole legata anche alla nostra storia novecentesca e alla storia della nostra lingua”.

Stava e sta piuttosto, dunque, il senso della esortazione fatta, nella volontà di un effettivo reale confronto con quel ‘dopo-il-paradigma’ di cui ho tracciato insufficienti ma comunque forse rilavorabili e non inutili linee qui, ossia prima sul “verri” entro i margini di una sorta di dossier su Prosa in prosa, e poi su Nazione indiana lievissimamente variando e abbondantissimamente (nel thread, nei commenti) chiosando.

Cosa resta di quella discussione? Forse – ipotizzo – anche quello che già affermavo tempo fa attraverso un dialogo con Maria Valente in due passi in particolare: uno ripreso qui in Nazione indiana, e uno presente qui, in cui cito anche Viton tradotto da Inglese.

Affermavo cioè che – data per assodata e da noi tutti in dialogo condivisa la necessità di confrontarsi con i testi dell’antologia Prosa in prosa “iuxta propria principia” – può legittimamente essere aggiunto che vari modelli e riferimenti non intesi come padri o come exempla primissimi, e varie utili cartine di tornasole esterne (quali giustamente, Stefano, la tua recensione invocava) sono precisamente e, devo insistere, pressoché necessariamente rintracciabili in alcuni autori non italiani. Fratelli, non padri, davvero.

E, questo, non per una qualche esterofilia triviale, ossia in buona sostanza non per provincialismo (mi auguro). Ma proprio perché sono scarsi (togliendo, che so, il caso di Carlo Bordini, per dire) gli esempi di autori di adesso o di ieri ai quali poter gettare l’àncora del link utile, nel nostro paese, avendo intenzione di collocare decifrare spiegare gammm e Prosa in prosa e la prosa in prosa. (Dico spiegare come direi entrare a pie’ pari in un contesto e mood percettivo che fattualmente e banalmente non trova riscontro da noi, e invece esiste già altrove – e qui ossia chez nous un po’ grazie a gammm, talvolta, echeggia).

Se una certa possibile linea di scritture (anche verbovisive) è stata interrotta in Italia, o ha avuto solo un certo tipo di continuazione (di cui parlo specie nel secondo dei link ultimi citati), e se si tratta delle stesse linee che invece altrove – in particolare in USA, Canada, UK, Belgio e Francia, e in alcune aree del nord Europa – hanno costituito tradizione e varianti inedite nella tradizione, e dato vita a portali, siti, riviste, festival, case editrici di livello nazionale, e sollecitato stanziamento di fondi per l’istituzione e il mantenimento di corsi universitari, e di archivi di riferimento e reti informatiche (penso all’archivio della Ohio State University voluto da John Bennett, o a PennSound e ai portali EPC che soprattutto si devono a Charles Bernstein, e penso al lavoro di Gleize a Lione), se tutto questo è vero, e se è vero, come è vero, che tale e tanto fervore culturale, intellettuale, addirittura accademico, oltre che diffuso tra i lettori, nei locali dove si fanno reading, in piccole zines anche autoprodotte, concerti, mostre, ha creato un pubblico folto di interpreti, lettori e scrittori, e una rete mondiale estesissima di siti e blog, e di conseguenza un pubblico della poesia che riceve e fa un certo tipo di scrittura, e ragiona secondo e dentro un clima testuale che è diverso da quello delle avanguardie (pur in parte da lì venuto), se tutto ciò è vero, mancando tale clima (derivato da mosse precise) in Italia, e ritrovandoci invece noi prosinprosi in quello lì (come vi trovassimo dopo un vuoto di un trentennio qualcosa che doveva configurarsi così, e che sentiamo proprio fraterno e già familiare), ecco, mi domando e ti domando: come spiegarci e ritrovarci – tutti – se non facendo anche riferimento a quel clima, assente o semiassente in Italia?

L’ebook di Isgrò in gammm (inserito nel 2009) è un ‘riporto’ o eco dagli anni Settanta, e un hapax se ricondotto e letto nel contesto attuale, ma non lo sarebbe affatto in altri contesti. Non è allora più facile ascoltare gli echi di quei contesti, per avere un buon quadro di cosa sono ora determinate tradizioni e deviazioni da tradizioni, invece di riferire le scritture di gammm al passato italiano (Isgrò medesimo, intendo, citato da me, e altri, citati da te)?

Una delle noiose ma non sottovalutabili ‘controindicazioni’ nel riferirsi, fra l’altro, agli anni ’60 e ’70 italiani risiede nelle accuse (per quello che valgono) che poi ci vengon rivolte, di essere noi di gammm dei ‘nostalgici’ di quegli anni. Mentre non si vede (non v’è chi intenda) che si tratta solo di riallacciare dei fili con e introdurre differenze in una tradizione che altrove (non qui) ha avuto vicenda ampia, complessa, e arricchimenti.

Attenzione: è storia che ha avuto ed ha anche chiusure, certo. Spesso negli USA chi legge un certo tipo di scrittura non legge e non fa più altre (più ‘tradizionali’?) scelte. Ma questo è uno dei risultati di quel cambio di paradigma a cui accennavo. Ed è prassi rimessa alle opzioni individuali. Quanto a me, riducendo al piccolo minimo spazio mio il discorso, qui, ho idea che libri come Storia dei minuti, o come Shelter, siano chiari segni che Prosa in prosa come Quasi tutti non rappresentano percorsi che esauriscono e ‘chiudono’ (semmai aprono ad altri ambiti) la mia identità. Non solo non temo queste aperture, ma le trovo – appunto – già fraterne.

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Nello scorrere il passo citato di Giuliani circa la “degradazione dei significati”, non posso non sentir sorgere spontanea per me la domanda che segue: sotto quale profilo la critica (non tua: parlo in generale) considera la vicenda ||significante versus significato|| come tutt’ora nodale in Prosa in prosa, quando invece (a me) sembrano assolutamente chiari e non “degradati” (nel senso di Giuliani, direi) i significati in campo, nei testi del libro, quasi sempre, pressoché ovunque? Non posso impedirmi un tot di disagio e perplessità. Che possono tuttavia essere attribuibili a impressioni mie. (Questo che vado redigendo non è un saggio; è una risposta – quasi in forma di domande, oltre che di lettera – a uno studioso e autore che stimo).

Quando leggo, nel tuo intervento,

“la prima cosa da fare è ‘pensare’, appunto, ossia confrontarci senza riparo con il naufragio che ogni azzardo porta con sé, con l’utopia della scrittura, che non è il senza luogo, bensì il luogo altro, da rifondare continuamente nell’adesso, da fare essere in quanto s-fondamento, rimando continuo al possibile, dialogo con un vero che è lo stesso inquieto oscillare del senso quando pensiamo, quando scriviamo poesia. Per me il dialogo fra ‘parole’ e ‘langue’ si istituisce quanto più siamo consapevoli di questo”,

a me sembra di leggere una riflessione che potrebbe senza alcun attrito sorgere sull’occasione di una lettura critica di un testo come Shelter. Ma appunto: lettura critica di un testo che non è (o non ovunque è come) Prosa in prosa. Anche se, devo dirlo, non vorrei muovermi troppo – ora – fuori dal solco – in una serie breve o meno di riflessioni dedicate a un libro circoscritto a me.

Proseguendo nella lettura delle risposte:

“Chiedo dunque a Marco: ‘la molteplicità lessicale’, se attinta dall’infinito trattenimento che è l’archivio contemporaneo dei saperi, è davvero atto creativo del soggetto che si sa plurale, o rischia di essere attività poietica del soggetto che opera sulla natura del linguaggio così come il soggetto borghese agisce sul paesaggio, saccheggiandolo?”

Una mia replica potrebbe partire dalla sezione di Bortolotti, fitta di segmenti apparentemente memoriali che arrivano in realtà a darsi come flussi e microperimetri (post di blog, stop-and-go) di una stupita neofilosofia tascabile; oppure dall’ultima sezione, di Andrea Raos, per esempio, che è assolutamente ricca di spessori di riflessione, pur e precisamente attingendo all’archivio dei saperi, e anche all’in/trattenimento di questi (pensiamo agli spunti che vengono dal cinema). Sarà allora, questo tipo di scrittura, un atto del “soggetto che si sa plurale”, senz’altro; e sarà, anche, attività di scrittura, certo, ma “poietica” in un senso diverso rispetto alle attività che la hanno preceduta. Perché e come diverso? Forse una spiegazione è data (spero, ho tentato) nelle ultime risposte e commenti nel thread di N.I. citato, sul Cambio di paradigma.

A questa differenza c’è modo di appressarsi, vedendola operare in luoghi precisi (tra cui gammm, o appunto Prosa in prosa).

Inoltre.

Quando accade di citare una attività che ha anche (assolutamente non in primissimo piano) un riferimento a leve e ingranaggi linguistici, pur escludendo una messa in atto di “riga e squadra” per fare i conti con quelli, quasi inevitabilmente e necessariamente si percepisce, nella critica, una sorta di timore di “esaustione” delle risorse linguistiche.

Ma se proprio il linguaggio è l’inesauribile – o parte viva e sfuggente dell’inesauribile – della nostra identità, non sarà forse, quel timore, qualcosa di relativo e riferito alla identità acquisita, e dunque un timore che traduce un senso di perdita dei contorni e confini e luoghi e dati e nodi noti? Bon: è proprio contro la paura della perdita del noto che si alzano le vele, affermo, senza necessariamente fare la fine di Ulisse in Dante.

E, au contraire: non sarà semmai in autori certo straordinari, ma ricchissimi di jakobsoniana “funzione poetica”, e assertivissimi (e da me assai apprezzati) come, per dire, Caproni o De Signoribus, che andranno cercate le tracce dello strutturalismo? (Anche se io credo nemmeno lì si diano nel senso progettuale sottinteso dall’inflessione negativa che si dà a “strutturalismo”). Non è forse in loro che si accumulano quei segnali di poesia, di struttura, di rime-rimandi, quegli indicatori di un delineato versante retorico e di contratto stipulato col lettore, di cui al contrario la prosa in prosa di Jean-Marie Gleize precisamente teorizza la “necessità” di scomparsa?

Stefano, domandi: “Il ready made non ha questa ferita narcisistica dentro sé?”.

Mi domando a mia volta: non sarà proprio e forse precisamente esattissimamente il ready made a rappresentare il non-ancora-affrontato di un momento e in un momento della storia dell’anthropos arrivato troppo presto? È ipotesi: probabilmente noi non siamo ancora pronti per l’avvento della fotografia (come nessun organismo è pronto ad incontrare lo specchio). Altro che scolabottiglie e ruote di bicicletta. Io sento la mia riflessione, per quanto esercitata proprio su questi oggetti spesse volte, come sento me stesso: decisamente dislocato e spiazzato e sfidato e infine sconfitto dal debordare segnico e filosofico del puro e semplice mezzo fotografico. È qualcosa con cui ci stiamo confrontando tutti da duecento anni senza ancora aver trovato il quadro intero (che intero non sarà mai) dei punti di rottura e di tenuta di ciò che era pensabile come “senso estetico moderno” ante 1839.

Il ready made accelera vertiginosamente (e sovrascrive, insieme a mille altre cose poi: cinema, radio, realtà digitale, …) la complessità delle nostre relazioni con questo già arduo e inaggirabile imponderabile oggetto che fu/è la fotografia.

Detto in breve, e in risposta:

A mio avviso è proprio per un distacco dal narcisismo del ritratto, che l’oggetto non esibito ma mutato di campo (dall’utile all’estetico) acquista e si fa vettore di segni del senso. È proprio staccando l’ombra dal corpo – dunque rischiandola – che abbiamo un modo inedito e non garantito di rapportarci alla nostra “anima”, a quello che sentiamo (poter) essere il “senso” (sempre “portato in segni”, reso tracce, ossia già spostato di un grado o più gradi di differenza/différance altrove, lateralmente, rispetto al “punctum” dove il  linguaggio starebbe già, ossia rispetto al dato e al movimento in corso, che parla e articola quel punctum e già sta tacendo, proprio per una differenza che non “è”, non “risiede”, ma si esaurisce nel nostro percepirla non appena ci ha gettato un rapido lampo, un’occasione).

3

Ancora, Stefano, scrivi: “Vero che tu distingui […] tra ready made e sought object, considerando quest’ultimo quale voluntas, atto/scarto/scatto creativo; tuttavia, non è questa un’azione che compete a tutti i poeti degni di essere chiamati tali? Certo nel sought object non si pesca nell’indistinto o nell’’ignoto’, come nella linea rimbaudiana, ma le due operazioni hanno uno scarto/salto/azzardo simile. Giusto poi ragionare sulle differenze, come tu affermi nel medesimo commento”.

Rispondo che sì, tutti i poeti degni operano secondo questo scatto, ma non a tutti era stato concesso (suggerirei: fin qui a nessuno) di dialogare – per quanto in modalità poveramente sequenziale  – con l’Aleph di borgesiana memoria. Ciascuno, dal più al meno erudito, contava sulla propria enciclopedia mentale, in complessa interazione con il proprio inconscio, e con mille altri fattori. Un autore che lavori con/su un sought poem ha invece raddoppiato e moltiplicato anche in una ‘dislocazione fuori di sé’ tanto l’inconscio quanto l’enciclopedia (universale davvero). E, allo stesso tempo, proprio per la ragione implicita nel verbo to seek, e per quel di più di attività che anche alla ricerca intenzionante si aggiunge, il medesimo autore, oggi, lavora su un piano di diffratta intenzionalità e moltiplicata semicoscienza. In interazione variabile, non pre-scritta. Con esiti diversi, qualità (e disvalori e valori) che cambiano.

Vera è tuttavia una riflessione dirimente, azzardo: non è che le scritture così nate, così ottenute, coagulino ex abrupto un nucleo o più nuclei di opere che si piazzano come bolle estranee all’interno di un corpo preformato (La Letteratura Come È), già stabile immobile. Il farsi stesso di quelle strutture o di quei poems, sought o meno che siano, ha già in partenza (o già partendo, e infinitamente compartendo, dividendo) variato il contesto, e l’ambiente della ricezione, e i canali di distribuzione, e gusto e sguardo di chi legge (se lo sguardo è stato disposto, si rende disponibile, pur critico, ad accogliere tale variare, o ipotesi di).

Ecco perché il ritardo nel tradurre, nel tradurre non dico i soli sought poems e le opere di autori che adesso sono nel pieno della loro attività (Mohammad, Toscano, Boyer, Degentesh, Scappettone, Doppelt, Szymaszek), ma anche quelle di autori attestati da decenni (Hejinian, Bernstein, Silliman) o addirittura scomparsi (Scalapino, Markson), è un ritardo che implica giocoforza anche un gap o perlomeno un’asincronia (non per forza foriera di beltà alternative, concedimelo) che sarà anzi già da circa un trentennio è di percezione, di contesto, di trasmissione di una modalità dello sguardo. Di un modo, mood, tonalità, clima, inclinazione dello sguardo.

Lungi da me esortare all’incontro con X per “far passare” Y. Ma se in un contesto ABCD ci si confronta solo con ABCDE, un autore o lettore che abbia per contesto ABCDENQXYZ non potrà non lamentarsi di non trovare la suddetta modalità di sguardo.

Se nel dopoguerra – ma già prima – Vittorini ed Einaudi e Mondadori non avessero operato una fittissima attività di traduzione, e tutto fosse (salvo le genialità gaddiane e tanti altri capolavori di cui sappiamo) rimasto tale e quale com’era negli anni Venti e Trenta, che forma avrebbe assunto, per dire, il romanzo italiano del secondo Novecento? Siamo sicuri che avremmo avuto il Calvino post-trilogia?

Sanguineti e Balestrini non registravano forse, fin dal loro esordio, fin dai primissimi anni Cinquanta, una positiva sincronia con esperimenti che non erano solo italiani e non erano solo letterari, ma coinvolgevano le arti visive? (Da qui l’immancabile, chiedo venia, citazione del n.3 del “verri”, anche se  – prometto! – non [ri]parlerò della fin troppo nominata palus putredinis). (Fra l’altro quel numero è stato assai assai meritoriamente ristampato da Mimesis di recente, lo segnalo).

Ma torno al tuo testo: “A proposito della semiotica e dello strutturalismo, non c’è polemica alcuna. Dico soltanto che è proprio di tali discipline concentrare l’attenzione su costanti e variabili testuali, focalizzando la verità del testo sulla natura misurabile dello stesso (il Nuovo paesaggio italiano di Broggi e Tracce di Bortolotti sono così lontani?)”.

Perdonami, però:

La “non lontananza” di due dei sei autori da una possibile concentrazione su (che è anche: una forte e felice distrazione da) “costanti e variabili testuali” rischia di diventare, in un contesto in cui tutto ciò che non è Pasolini-Ceneri deve incatenarsi a un modello riga-e-squadra, una semplificazione. Che non ti appartiene. Lo so. Ma che puoi non volontariamente suggerire, laddove altri possono già essere all’opera per (fantasiosamente) sottolineare. Un inquadramento di questo genere, vorrei dire, non è tuo, lo so, daccapo, e lo dimostri anche e precisamente parlando di una “massa oscura dell’identità autoriale” (come dell’“imponderabile della ricettività nel fruitore”) che a mio avviso rende giustizia a tante pagine dell’antologia.

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Dissento forse più robustamente dall’ultima parte del tuo intervento, dove scrivi:

“se dico che Prosa in prosa ha come referente critico la dominante lirica della tradizione italiana, non opero un accostamento arbitrario: 1) “prosa” è l’esatto contrario di “canto” (prosastico è aggettivo evidentemente antilirico pur se spregiativo, e canto, nella sua massima espressione – non solo etimologica – è lirico); 2) Prosa in prosa esce in Italia: non può dunque esimersi da un confronto con un dibattito che attraversa la nazione da almeno un secolo (dai Crepuscolari e dal futurismo?) e che ha proprio nell’elaborazione antilirica legata al Gruppo 63 e al Gruppo 70 un referente autorevole”.

Posto, e da te perfettamente credo condiviso, che non è affatto immaginario un contrapporsi in quanto alterità del libro Prosa in prosa a un’impronta e a qualsiasi connotazione lirica (fatti salvi taluni tratti di lavoro, forse di un paio tra i sei autori), puntando io in picchiata sul sostantivo “poesia” devo recisamente affermare che a mio avviso non è affatto solo nell’accezione “lirica” che può esser sciolto il primo membro eluso anzi barrato della formazione “poesia in prosa”.

Voglio cioè dire che a  poesia è proprio francamente e legittimamente sostituibile tanto narrazione quanto poema epico quanto poesia politica quanto poesia filosofica quanto lirica (certo) quanto molte altre flessioni di ciò che stiamo qui (per negazione) suggerendo.

Si coglie addirittura qui un elemento di identità precisa del libro, ribadito più volte: la prosa in prosa non è narrazione, racconto, né poesia (nelle tante accezioni). Prosa – fra l’altro – opponendosi non solo a “poesia” e a “narrazione” ma anche (etimologicamente) a verso. (Dunque a una quantità di opere, genericamente intese, realizzabili attraverso le più diverse incarnazioni della ragione semantica dell’“andare a capo”). (Ed è pur vero che si moltiplicano, nel senso della prosa-satura-piatto-eccessivo-iper-ricco, le contraddizioni, allo stesso tempo: dato che Prosa in prosa è libro anche di elenchi, dunque di a-capo evidenti; ed è altresì libro di quasi-poesie come quelle sorprendenti di Raos, in ultima sezione). Satura lanx, davvero. Non solo antilirismo. Non solo, insisto. (Ma, sì: anche questo).

Allora tutto ciò, e sempre se e perché fa (per contesto di formazione antica o recente di molti o tutti tra noi) riferimento a un modo mood modus non italiano o solo contortamente italiano, complica non poco il quadro. Aggiungendo cioè elementi che non sono quelli normalmente rintracciabili nei libri di “lirica” come di “poesia” (in tante accezioni declinando il termine). Come collocare, altrimenti, il Fotoromanzo di pure immagini (a titolo ironico) che fa non da inserto ma da paritaria opera interna del/nel volume? Opera a sei mani, o sei occhi, meglio. Un po’ un monstrum, dunque. Sì, ma secondo quale idea di norma?

Se abbiamo presenti le uscite della rivista francese “Nioques”, come di altre statunitensi (“TRNSFR”, per esempio, a cui m’è capitato di contribuire sia con prose in prosa sia con sibille asemantiche), quale sorpresa avremo nello sfogliare Prosa in prosa?

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Quanto scrivi nel paragrafo che inizia con “Sto parlando a dei fratelli, sia chiaro”, non può che trovarmi in sintonia. Nelle direzioni differenti, è precisamente alle diverse – e tutte degne – forme del contesto letterario che nel tempo in parallelo ci dedichiamo.

Marco

 

 

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